L’uomo che ha SALVATO il MONDO - Norman Borlaug

 

L’INFANZIA

È il 1914, più precisamente il 25 marzo 1914, e siamo in un luogo chiamato Saude, vicino a Cresco, nell’Iowa, Stati Uniti d’America.

Henry Oliver Borlaug e Clara Vaala sono immigrati di seconda generazione negli States, genitori e nonni norvegesi, e si trovano nella fattoria di famiglia quando nasce il loro primogenito. Lo chiamano Norman Ernest. Norman Ernest Borlaug.

Sono membri della chiesa luterana: fanno battezzare il bambino e festeggiano con gli amici della piccola comunità di norvegesi-americani.

Norman è il primo di quattro fratelli, anzi, sorelle. A distanza di pochi anni nascono Palma Lillian, Charlotte e Helen e i bambini trascorrono la prima infanzia immersi nell’ambiente rurale.

Sono anni in cui non ci si può permettere più di tanto di giocare e quando Norman compie sette anni viene messo al lavoro in fattoria. Frequenta una scuola minuscola, di campagna, con una sola aula e una sola maestra, e per tutto il resto del tempo si occupa delle coltivazioni, dà da mangiare agli animali, pesca, va a caccia coi genitori e i nonni, impara i mestieri. Vive la terra.

Quando diventa più grandicello è ora di passare alla high school e in città frequenta una scuola pubblica dove scopre l’amore per lo sport. Fa parte della squadra di calcio, di quella di baseball e, soprattutto, del team di lotta libera, disciplina per la quale dimostra un talento impressionante.

Ma anche nello studio se la cava bene. Norman a scuola si distingue e così, quando finisce le scuole superiori, comincia a pensare alla possibilità di iscriversi all’università. Per farlo, però, dovrebbe lasciare il lavoro alla fattoria (con anche l’aspetto economico da considerare) e allontanarsi da quel mondo e quella terra in cui è vissuto ogni istante della sua vita.

Ne parla con il nonno Nels: un uomo di campagna, con le mani rovinate dal lavoro, pratico, ruvido, saggio come solo i nonni possono essere, che gli dice questo:

“E’ più saggio che ti riempi la testa adesso, se vuoi riempirti la pancia dopo. Studia.”

 

 

 

L’UNIVERSITÀ

Norman fa richiesta per l’università del Minnesota nel 1933 e fallisce di brutto il test di ammissione. Viene però accettato nel General College, un programma biennale di studio istituito proprio in quegli anni.
Lì comincia a spiccare e si trasferisce poi al College di Agricoltura nel programma di “forestry”, quello che noi chiameremmo “scienze forestali”. È brillante e motivato. Continua tra l’altro a lottare, entra nel team di wrestling dell’università arrivando nelle finali di tornei importanti, facendo match d’esibizione in tutto il paese.

Il buon Norman ci sa fare sui libri, ma ci sa fare anche con le mani. il combattimento, lo scontro fisico, non lo spaventa. Anzi, la lotta gli regala una tenacia, una costanza e una grinta quasi disumane. Ricordando quegli anni Norman dirà:

“Ho sempre pensato che avrei potuto battermi alla pari con i migliori lottatori del mondo. Questo pensiero mi ha resto forte. Mi sono nutrito spesso di quella forza. Forse è un appoggio inappropriato, ma sono fatto così.”

 

Mancano i soldi però, e Norman tra un incontro di lotta e un esame deve spesso fermarsi per lavorare e raccogliere soldi a sufficienza per continuare a pagarsi gli studi. Fa il cameriere e nella caffetteria dove lavora incontra Margaret, che diventerà sua moglie e con cui dividerà la vita per 69 anni fino alla scomparsa di lei.

Nel 1935 lavora nell’equivalente del nostro servizio civile e viene assegnato a dirigere il lavoro con disoccupati e senza tetto.

E lì, in quel momento, succede qualcosa che definirà la sua vita, un incontro che trasformerà Norman per sempre. Lì, in mezzo a tutte quelle persone che non hanno niente, Norman incontra lei, la fame.

Le persone con cui lavora fianco a fianco soffrono fisicamente, sentono dolore perché non mangiano a sufficienza. Questo sconvolge Norman, che ha 21 anni e, pur non essendo mai stato ricco, ha sempre avuto tutto il cibo di cui ha avuto bisogno e anche di più.

Molti anni più tardi scriverà: “Ho visto come il cibo li aveva cambiati, questo ha lasciato su di me cicatrici”.

Si laurea in scienze forestali nel 1937 e in seguito all’incontro quasi profetico con Elvin Charles Stakman, un professore di patologia delle piante specializzato nello studio di parassiti che rovinavano i raccolti, si iscrive a un master proprio in Plant Pathology, per poi prendere anche un dottorato studiando la genetica delle piante e dei parassiti.

 

 

 

IL LAVORO

Nel 1942 Norman viene assunto come microbiologo alla DuPont, un colosso mondiale che si occupa di colture e prodotti chimici. Per darvi un’idea della scala di cui stiamo parlando, oggi, nel 2021, dopo varie fusioni, spinoff e casini vari la DuPont è nelle prime 40 posizioni delle aziende più capitalizzate in America, con fatturati che arrivano a sfiorare i cento miliardi di dollari.

Bene, lì alla DuPont Norman era stato assunto per lavorare su funghicidi, pesticidi e prodotti per eliminare i batteri nelle colture.

Ma poi arriva il 1941, la guerra, e Norman si fa prendere dallo spirito patriottico e cerca di arruolarsi ma viene rifiutato. Il suo laboratorio viene riconvertito per servire le forze armate e lui comincia a lavorare a una colla che potesse essere impiegata nelle acque salate dell’oceano per sigillare casse contenenti cibo da inviare alle truppe bloccate in isolotti circondati dai Giapponesi. Sembra che sia nel suo destino occuparsi del cibo, anche se questa volta lo fa in modo diverso.

Ha successo: nel giro di qualche settimana sviluppa un collante resistente alla corrosione, al sale, all’acqua, agli urti. Le casse piene di cibo per i soldati arrivano a destinazione.

Continua a lavorare alla DuPont su progetti militari fino quasi alla fine della guerra, nel 1944.

E poi, cambia tutto di nuovo.

 

 

 

IL MESSICO

Ma qui ci fermiamo e facciamo una deviazione necessaria per capire come sono andate le cose. Fidatevi, che chiuderemo il cerchio in poco tempo.

Negli anni 40 il Messico è una nazione in ginocchio, poverissima, molto più che ora, e in crisi alimentare totale. Non cresce niente e il governo è costretto a importare costantemente cibo, grano soprattutto.

Chiedono aiuto, si fa per dire, al loro vicino ricco, gli USA, che ovviamente ci vedono una grande opportunità di investimento e di consolidamento del potere e dell’influenza politica e militare americana sulla regione.

Il vicepresidente americano, Henry Wallace, convince un altro mega colosso, la fondazione Rockefeller, a istituire un gruppo con l’obiettivo di stravolgere il programma agricolo messicano e rendere la nazione a lungo termine indipendente a livello alimentare. La fondazione contatta alcuni degli agronomi più influenti e competenti nel campo. Tra cui… Elvin Charles Stakman, il professore-mentore di Norman all’università del Minnesota. Ed ecco che il cerchio si chiude.

Stakman, attraverso un altro illustre specialista, offre a Norman Borlaug un contratto per dirigere il Programma cooperativo di ricerca e produzione del grano in Messico. Inizialmente Norman declina, ma poi gli torna in mente quello che era successo anni prima, all’università, quando aveva incontrato la prima volta la fame, quella vera. La prospettiva di avere un impatto così enorme su un intero paese lo affascina, lo motiva… lo chiama.

Nel 1944 lascia tutto, mette in pausa anche la sua vita personale, la sua famiglia, e si trasferisce a Città del Messico.

 

 

 

LA RIVOLUZIONE

Ma non è come si aspettava: in Messico la vita è difficile, la ricerca è difficile, il lavoro è difficile, la strumentazione è inadeguata e la popolazione locale è ostile agli scienziati; li incolpa di una serie di annate tremende per le coltivazioni, distrutte in realtà da un fungo, il puccinia graminis o la ruggine del grano, che blocca lo sviluppo delle piante, le rachitizza e le uccide.

Norman decide di non mollare e con il suo team, nei 16 anni che passa in Messico, cambierà la storia di quel paese e del mondo intero.

Per prima cosa accelera le colture sfruttando il clima e la conformazione particolare del territorio, aprendo a un doppio raccolto annuale, una tecnica all’epoca mai vista e persino contraria ai principi di agronomia riconosciuti.

Gli viene fatta opposizione per quest’idea e Norman consegna le sue dimissioni, mette la sua carriera a rischio, ma Stakman interviene e gli chiede di restare acconsentendo all’esperimento.

Il doppio raccolto funziona alla grande, i semi raccolti dagli altopiani centrali del Messico al termine dell’estate vengono portati a nord e seminati di nuovo: questo permette di ottenere due raccolti all’anno e di rendere anche più veloce il programma di miglioramento genetico.

In seguito a questo approccio inusuale, chiamato shuttle breeding, le linee selezionate sono in grado di adattarsi a condizioni climatiche anche molto diverse tra loro.

 

Ma non è sufficiente: si passa a lavorare ancora di più sulle varietà di grano, sugli incroci, gli ibridi. Borlaug sviluppa piante più resistenti alla ruggine e lavora allo sviluppo di una varietà di grano nano, più basso e dello stelo più tozzo, più resistente al vento e al peso stesso della pianta.

Sperimenta senza sosta, anno dopo anno, raccolto dopo raccolto. Lotta con la terra, con le piante, con i parassiti, con le pressioni politiche ed economiche.

Alla fine arriva a due varietà denominate Pitic 62 e Penjamo 62, semi-nane, resistenti alle malattie, che associate al doppio raccolto e all’ottimizzazione del terreno e degli spazi fanno esplodere la produzione messicana. Nel 1963 oltre il 95% del grano messicano è di una varietà sviluppata da Norman, il raccolto è sei volte più ricco di quando era iniziato lo studio nel 1944.

Il Messico, grazie al lavoro di un solo team di ricerca, guidato dal genio e dalla tenacia inarrestabile di Borlaug, diventa indipendente e autosufficiente nella produzione di grano. Di più, diventa esportatore di grano a livello internazionale.

 

Nel 1961 e 1962 le varietà di grano di Norman vengono inviate in giro per il mondo e inizia una fase di test internazionale. Nel 1962 Norman viene chiamato in India per portare lì il suo grano. L’india e i paesi limitrofi in quel periodo sono allo stremo tra fame e carestie. Le autorità indiane e quelle pakistane inizialmente fanno resistenza, ma poi, di fronte alla drammatica mancanza di cibo e alla sua insistenza, lo lasciano coltivare.

C’è di mezzo la guerra per la regione del Kashmir, casini, boicottaggi, difficoltà. Nel 1965 si prevedeva che l’area indiana nei 15 anni seguenti avrebbe perso la battaglia con la fame e che sarebbero morti centinaia di milioni di persone.

Grazie a Norman, ai suoi metodi e alle sue piante, il Pakistan raggiunge l’autosufficienza nella produzione del grano nel 1967. Nel 1974 l’India intera è autosufficiente per tutte le varietà di cereali

Non solo, forse il più grande successo in assoluto è che tutto questo viene raggiunto senza aumentare le superfici di terreno coltivato. Norman lavora sulla produttività, sull’efficienza, sulla resistenza, sulla velocità, sulla resa, non sulla quantità di terreno consumato per le coltivazioni.

Dopo l’India e il Pakistan tocca ai paesi dell’America Latina, poi al Medioriente, poi all’Africa. Poi alla Cina. Filippine, Indonesia, Vietnam, diventano progressivamente indipendenti ed esportatori di cereali.

Non solo grano, ma anche riso e altri varietà. Norman Borlaug vola da un angolo all’altro della terra.

Negli anni, Norman e il suo team lavorano su ogni aspetto dell’agricoltura, non solo gli incroci e la genetica delle piante o la gestione dei raccolti ma anche nuovi fertilizzanti chimici, nuove tecniche di irrigazione, nuove macchine, come le mietitrici meccanizzate, i diserbanti, i prodotti fitosanitari. Di tutto.

Il lavoro di Norman si espande ovunque, diventa di portata planetaria e si comincia a chiamarlo con un nome che rimarrà scolpito nei libri di storia. La rivoluzione verde.

 

 

 

L’IMPATTO

Norman Borlaug, la mente e il braccio della rivoluzione verde, è forse la singola persona nella storia dell’umanità ad avere impattato di più sulla vita degli esseri umani.

Si calcola che il suo lavoro in 60 anni abbia salvato dalla fame oltre un miliardo di persone.

Provate a immaginare che cosa questo significhi. Un miliardo di persone.

E non è tutto: la rivoluzione verde nei paesi che ha toccato ha diminuito la mortalità infantile, aumentato l’aspettativa di vita, aumentato il consumo medio di calorie per ogni persona, contribuito al miglioramento delle condizioni di vita, all’economia, persino allo sviluppo cognitivo delle popolazioni.

Non è perfetta e non è finita, ci sono questioni critiche da risolvere riguardanti l’impatto delle monocolture e senza alcun dubbio il lavoro non è finito, ancora tanta, troppa gente sente il morso della fame. Ma possiamo dire con assoluta certezza che negli ultimi 60 anni la rivoluzione verde ha inferto un colpo mai visto prima alla fame e alla povertà nel mondo.

 

Norman è stato anche criticato, ferocemente pure, da certe branche più estreme di ambientalismo. Lui stesso ha riconosciuto i limiti di quanto ha fatto, era consapevole dell’imperfezione dei risultati ottenuti ma rivendicava con forza il valore della rivoluzione a cui ha dedicato la vita, che era, nel suo modo di vedere, un successo solo temporaneo, non definitivo, contro il mostro della fame. Interrogato sul fatto che alcune lobby ambientaliste facessero pressione politica ed economica contro la rivoluzione verde, Norman disse questo:

“Alcuni degli ambientalisti occidentali sono il sale della terra, li stimo, ma molti altri invece sono elitisti. Non hanno mai sperimentato la sensazione fisica della fame. Fanno lobby dai loro comodi uffici di Washington o Bruxelles, ma se vivessero anche solo un mese in mezzo alla miseria del terzo mondo, come io ho fatto per 50 anni, piangerebbero e griderebbero per avere i trattori e i fertilizzanti e i canali di irrigazione”.

 

Punto.

 

Nel 1970 Norman Borlaug vince il premio Nobel per la pace. Quando arriva a casa la telefonata del comitato risponde Margaret, la moglie. Norman ovviamente è in mezzo a un campo nella valle di Toluca, in Messico, per dei nuovi test. Margaret e la figlia Jeanie si fanno portare lì, in mezzo al grano.

 

Proprio la bambina racconterà la scena: Margaret nel campo si avvicina a Norman “Ehi, hai vinto il premio Nobel per la pace.” Lui la guarda: “Nah, non è vero”. E continua a lavorare.

Crede sia tutto uno scherzo, ci mettono un bel po’ a convincerlo che sia vero.

Nel suo discorso, di fronte agli occhi del mondo, tra le tante riflessioni, avvertimenti, raccomandazioni che potete leggere al link che vi lascio qui sotto, dice anche questo:

“Noi saremo colpevoli, senza appello, di una negligenza criminale, se permetteremo future carestie. L’umanità non può tollerare questa colpa. […] Se desideri la pace, coltiva la giustizia. Ma coltiva anche i campi allo stesso tempo, per produrre più pane; senza di quello, non esisterà alcuna pace.”

 

 

 


 

 

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