INDIFFERENZA - La storia di LILIANA SEGRE

Indifferenza: cinque sillabe e il peso infinito della storia che portano con sé. Indifferenza è il simbolo di quello che è accaduto e che può accadere ancora.

Indifferenza è la parola che la senatrice Liliana Segre ha definito nel vocabolario Zingarelli 2020, la parola che si è battuta per scolpire su un muro nell’atrio del Memoriale della Shoah di Milano, nel luogo da cui treni merci stipati di persone partivano per l’inferno.

Liliana Segre, una signora di 90 anni con i capelli bianchi e la voce ferma e inamovibile, proprio come quelle lettere gigantesche scolpite nel muro, una donna che ha trasformato la sua vita in un simbolo con l’obiettivo di testimoniare, di divulgare, di insegnare, di spiegare quello che appare inspiegabile.

Segre, sopravvissuta all’olocausto, sopravvissuta all’indifferenza. La sua storia è un simbolo di speranza, un motore di educazione e un avvertimento per il futuro. Ascoltare questa storia non è solo un privilegio infinito, è un dovere civico.

Oggi, in questo articolo, vi racconto la storia di Liliana Segre.

 

L’INFANZIA

Liliana nasce a Milano in via San Vittore il 10 settembre del 1930, da Alberto e Lucia.

Perde la mamma quando ancora non ha compiuto un anno e rimane con il papà Alberto e i suoi nonni paterni, Olga e Giuseppe. La sua è una famiglia di origini ebraiche, ma laica, e per i primi anni della sua vita la razza, la religione, l’identità semita non fanno parte della vita di Liliana.

Quelli sono gli anni del fascismo, ormai sempre più servile nei confronti del regime nazista, ben più forte a livello economico, politico, militare. Un fascismo che è sempre stato un regime violento, razzista, oppressivo, ma che sembra diventarlo sempre di più ogni anno che passa.

Liliana non si può certo preoccupare di tutto questo: va alle scuole elementari, adora la scuola, finite le lezioni torna a casa dal papà e dai nonni, gioca con le sue compagne e i suoi compagni, fa una vita normale, come quella di tutti.

Nel 1938, però, cambia qualcosa, più precisamente il 18 settembre del 1938, quando davanti al municipio di Trieste, in Piazza Unità d’Italia Mussolini, il Duce, annuncia per la prima volta il contenuto delle cosiddette “leggi razziali”, una serie di provvedimenti legislativi e amministrativi rivolti principalmente alla discriminazione delle persone di “razza ebraica”.

Per i fascisti, un ebreo è chi è nato da entrambi i genitori ebrei, ma anche da un padre ebreo e una madre straniera, da una madre ebrea con un padre ignoto o chiunque professi la religione ebraica.

Le nuove leggi comprendono il divieto di matrimonio tra italiani ed ebrei, il divieto per gli ebrei di avere domestici ariani, il divieto per aziende di un certo livello e amministrazioni pubbliche di avere dipendenti ebrei, il divieto per gli ebrei stranieri di trasferirsi in Italia, il divieto di fare il giornalista o il notaio, il divieto di svolgere il servizio militare, si arriverà ovviamente all’esproprio di tutti i beni mobili ed immobili.

Ma c’è una norma che più di tutte colpisce la piccola Liliana, che in quel momento ha 8 anni e frequenta la terza elementare: il divieto per i bambini e ragazzi ebrei di frequentare le scuole pubbliche.

Liliana viene espulsa da scuola per l’unica ragione di appartenere a un gruppo di cui neanche si era mai preoccupata di fare parte, a malapena lo sapeva di essere ebrea. Viene espulsa per la colpa di essere nata, per usare le sue parole.

Suo padre e i suoi nonni, disperati, preoccupati, provano a spiegarle in modo meno oppressivo possibile quello che è successo ma Liliana non può capire, tutto questo è troppo assurdo, troppo grande, troppo incredibile per la mente di una bambina.

Di trenta compagne di classe solo 3 continuano a frequentarla, le altre spariscono, dal giorno alla notte. Liliana si trova in casa, da sola e comincia a chiedere ossessivamente a suo padre spiegazioni. Perché non posso più andare a scuola? Perché non posso vedere la maestra? Perché non vedo più le mie compagne? Perché?

Alberto telefona alla sua maestra e le chiede un favore: di venire a trovare a casa Liliana, almeno una volta. La maestra si presenta a casa dei Segre ma non ha parole di affetto, di conforto, di comprensione.

Dice solo 11 parole: “non è mica colpa mia se ci sono le leggi razziali”. E se ne va.

È qui che Liliana, per la prima volta, incontra l’indifferenza. Quella vera, che si scarica la coscienza e si lava le mani senza posare uno sguardo di troppo sulle ingiustizie di qualcun altro.

 

LA FUGA

Gli anni seguenti sono un crescendo di pericolo e di oppressione, il padre la nasconde da amici per un periodo e poi nel 1943 tenta di scappare. Insieme a suo padre, Giuseppe, il nonno di Liliana, alla ragazzina che ormai ha 13 anni e a due cugini scappa sulle montagne per raggiungere Lugano, in Svizzera.

Vengono fermati sul confine, le guardie svizzere non credono alla storia che si sentono raccontare, pensano che sia una famiglia di disertori, renitenti alla leva. Li deridono, li respingono e li consegnano l’11 dicembre alle autorità italiane in camicia nera.

 

LA PRIGIONIA

I Segre passano quasi una settimana in carcere, a Varese, per essere trasferiti poi a Como e infine al carcere di San Vittore, a Milano, dove rimangono più di un mese.

Liliana è dovuta crescere in fretta, non ha avuto il tempo per la giovinezza, l’adolescenza. È una tredicenne sveglia e consapevole, ma se col tentativo di fuga all’estero le era rimasto un briciolo di brivido dell’avventura inconsapevole ecco lì, in quel carcere, si spegne.

In quel carcere Alberto, suo padre, spezzato, in preda a una disperazione inesprimibile pronuncerà una frase che è impossibile anche solo da immaginare. Le dirà “scusami di averti messa al mondo”. E io non trovo parole adeguate da dire su questo. Le trova Liliana, che gli risponde che lei invece è felice di essere lì col suo papà.

 

IL TRENO

Il 30 gennaio 1944 Liliana Segre, suo Padre Alberto e il nonno Giuseppe vengono portati al binario 21 della stazione di Milano Centrale, non il binario che usano tutti, quello o da cui partono i treni delle vacanze, dei pendolari, delle persone normali, no: un binario sotterraneo, usato per le merci e il bestiame. Lì sotto Liliana insieme alla sua famiglia viene stipata in un treno merci, pigiata con centinaia e centinaia di persone in uno spazio angusto, senza posto non solo per sedersi, ma neanche per respirare, e spedita verso il nord.

Il viaggio dura 7 giorni, sette giorni soffocanti, interminabili, disperati.

Quando il treno si ferma e i prigionieri vengono tirati giù a forza dai vagoni, ad accoglierli è la neve. Un piazzale artificiale, dove si fermano i binari, dove tutto è frenetico, Segre lo descrive come la scena di un film accelerato dove tutto si muove troppo velocemente: urla, ordini in tedesco, cani che abbaiano, pianti, gente che corre, spari, persone, fischi.

Alberto tiene Liliana per mano, ma dura poco. Vengono separati: in quello spiazzo si dividono gli uomini dalle donne, gli abili al lavoro dai non abili. Gli utili dagli inutili. Nessuno dei prigionieri può immaginare che cosa sta succedendo davvero ma lì, in quel piazzale, si decide chi finirà alla camera a gas e chi diventerà uno schiavo nel campo.

Il nonno Giuseppe soffre di Parkinson, trema, gli viene intimato di rimanere immobile ma lui non può. Lo picchiano, lo portano via. Alberto in quel piazzale vede sua figlia per l’ultima volta.

Liliana, forse perché giovane, forse perché ancora in forze, forse per caso, passa la selezione, le viene tatuato sul braccio il numero 75190. La sua fila viene fatta sfilare sotto a un cancello di ferro battuto. Auschwitz.

 

IL CAMPO

La nuova vita da schiava di Liliana è decisa: viene assegnata a una fabbrica di bossoli di proiettili per mitragliatrici, la Union, non ha alcuna esperienza e non è in grado di lavorare nella fabbrica e quindi il suo compito sarà quello di scaricare il ferro, metterselo in spalla e portarlo a un altro prigioniero, che poi lo porterà dentro lo stabilimento per la lavorazione.

Liliana non è più una ragazza, non è più un’ebrea, non è più una persona. È uno strumento, uno “stuck”, in tedesco, letteralmente un pezzo.

La vita nel campo è un pozzo senza fondo di orrore, la fredda e logica macchina dello sterminio nazista non dorme mai, non rallenta mai, come un enorme motore di acciaio e cemento nutrito di vite umane.

Segre racconta di una volta in cui il prigioniero a cui portava il ferro si ferma, anche se era vietato e poteva costargli la vita o qualche costola rotta e le chiede la sua età.

“Tredici”, risponde Liliana e il prigioniero, un uomo di mezza età: “mi ricordi la mia bambina”. “E tu mi ricordi mio padre” Da quel momento i due cominciano a scambiarsi qualche parola, il signore era un insegnante, un professore di storia e le racconta per quei pochi secondi nel passarsi di mano le sbarre di ferro di quello che insegnava ai suoi ragazzi, in un’altra vita. Liliana lo ascolta e per un secondo, solo per un secondo, sono di nuovo insegnante e allieva, non più due schiavi.

Liliana sopravvive nel campo per un anno, supera altre tre selezioni, perde un’amica che aveva incontrato lì. Continua, ostinatamente, caparbiamente, a vivere.

 

LA LIBERAZIONE

Quando la guerra sta per finire e i russi hanno iniziato l’avanzata nei territori del Reich, il regime decide di far sparire ogni traccia dell’olocausto. Vengono bruciati campi, cancellate le tracce, fatti saltare in aria i forni e il 20 gennaio 1945 iniziano quelle che verranno poi chiamate “marce della morte”.

I prigionieri vengono radunati, messi in fila e costretti a camminare verso il nord, verso il luogo in cui verranno tutti giustiziati in massa. Liliana è in una di queste file, su una strada polacca. Pesa 32kg in tutto.

Cammina, cammina, cammina più di quanto le sue gambe di ragazza possano sopportare. E poi cammina ancora. 7 giorni nel gelo, circondata dalla morte e con la morte come destinazione.

Il 27 gennaio 1945 la fila di Liliana viene intercettata da una pattuglia americana, lei descrive questa camionetta che non ha mai visto prima e questi uomini in divisa colorati puliti, sorridenti. È difficile crederlo davvero, ma sono liberi.

Gli ufficiali nazisti si danno alla fuga, si spogliano, cercano di confondersi fra i prigionieri, cominciano, in un ironico ribaltamento delle parti, ad avere paura per la loro vita.

Gli americani cominciano a lanciare dalle camionette pezzi di cioccolato, caramelle, sigarette, frutta secca.

 

LA VITA DI UNA SOPRAVVISSUTA

Il ritorno a casa di Liliana, a Milano, è una delusione. Racconta di essere stata adottata da parenti amorevoli, brave persone, che le volevano davvero bene ma tornare alla normalità, al mondo libero è un’impresa ardua.

Liliana fuori ha 15 anni, ma dentro ha perso ogni giovinezza. In un’intervista recente racconta di sentirsi molto più giovane ora, che davvero è una novantenne, rispetto a quando si ritrovava a ballare con le ragazze e i ragazzi della sua età.

Segre descrive così quei momenti:

«Era molto difficile per i miei parenti convivere con un animale ferito come ero io: una ragazzina reduce dall'inferno, dalla quale si pretendeva docilità e rassegnazione. Imparai ben presto a tenere per me i miei ricordi tragici e la mia profonda tristezza. Nessuno mi capiva, ero io che dovevo adeguarmi ad un mondo che voleva dimenticare gli eventi dolorosi appena passati, che voleva ricominciare, avido di divertimenti e spensieratezza.»

Impara a tacere perché nessuno vuole, forse nessuno può, veramente, ascoltare. Il silenzio di Liliana dura 45 anni, in cui vive la sua vita, si sposa, diventa mamma, diventa nonna, tenendo dentro di sé il dolore.

 

LA VITA DI UNA TESTIMONE

A 60 anni Liliana decide di smettere di tacere e di cominciare a raccontare. Da quel momento Liliana Segre, la signora dalla voce ferma, dalle parole chiare e precise, dalla lucidità mentale e di analisi assoluta, diventa qualcosa di più…

Diventa una testimonianza vivente, diventa un simbolo e plasma la sua terribile storia in un veicolo di educazione, di risveglio delle coscienze, di costruzione di pace. Pace vera, quella che può fondarsi solo sulla conoscenza.

La signora Segre gira le scuole di tutta Italia per parlare coi ragazzi e portare loro il regalo della sua esperienza, partecipa a documentari, interviste, libri, associazioni, movimenti, iniziative sociali.

Insiste con forza per portare ancora una volta la Storia, quella con la S maiuscola, al centro del processo didattico. Combatte l’indifferenza con l’unica arma che può sconfiggerla: l’educazione.

Riceve una laurea honoris causa in giurisprudenza, una in scienze pedagogiche. Premi, riconoscimenti, medaglie, cittadinanze onorarie.

Il 19 gennaio 2018, 73 anni e 1 giorno dopo aver iniziato quella sua marcia della morte nella neve, Liliana Segre viene nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica “per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale”.

I riflettori si puntano ancora di più su di lei tanto che orrendi rigurgiti del passato tornano a perseguitarla sotto forma di insulti, polemiche e minacce. Vigliacchi Le viene assegnata una scorta e lei, da nonna, come ama sempre definirsi, non può far altro che conquistare quegli uomini in divisa come se fossero suoi nipoti.

Parla di fronte al Parlamento europeo e l’Europa intera si inchina di fronte alla statura morale e intellettuale di una gigante dei nostri tempi. La senatrice Segre non ha bisogno di alzare la voce, non ha bisogno di fare del suo racconto uno spettacolo lacrimevole, non ha bisogno di giri di parole.

Le basta… esserci e la sua presenza, anche solo quella, parla più forte di qualunque megafono.

Oggi, nel 2020, a 90 anni ormai compiuti, ha scelto di ridurre i suoi impegni pubblici e dopo 30 anni di servizio agli altri, di dedicarsi un po’ di più anche a sé stessa.

 

Liliana Segre, senatrice a vita della Repubblica italiana, sopravvissuta, educatrice, nonna, ragazzina, porta con sé la responsabilità della storia di migliaia, di milioni di persone a cui è stata rubata la vita per la follia di un’ideologia disumana.

Porta e ha portato quel peso con dignità, forza, speranza, consapevolezza e amore.

Primo Levi scriveva:

“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare.”

La storia di Liliana Segre ci permette di conoscere. Per la sua colpa di essere nata. Per il suo merito di aver continuato a vivere.

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