
Gli “STILI di APPRENDIMENTO” non esistono (?)
I cosiddetti “stili di apprendimento” sono una… un attimo, un attimo, un attimo, non così in fretta, non è proprio così semplice. Raramente è così semplice, specie se si parla di una delle tematiche più controverse e articolate nel mondo dell’apprendimento e dello studio.
Stili di apprendimento: questa definizione si riferisce in realtà a una moltitudine di teorie, classificazioni, proposte, spesso anche in contrasto fra loro, sulle diverse modalità con cui impariamo.
Un tentativo, insomma, di “classificare” gli studenti in base alle loro preferenze, capacità e inclinazioni nello studio e di capire come queste modalità vadano valorizzate o sfruttate per ottenere migliori risultati.
La confusione è tanta, il rischio di abboccare e perdere tempo con teorie fantasiose e inutili è enorme.
E allora oggi, scienza alla mano, in questo articolo scopriamo cosa sono gli stili di apprendimento, se esistono davvero… e se servono a qualcosa!
Intanto ne approfitto per segnalarvi che in fondo troverete un po’ di bibliografia interessante, andate a vedere. È importante per tematiche come queste, quindi se volete approfondire sapete come farlo!
Devo essere onesto però e dichiarare fin da subito la mia posizione in materia. Ritengo, per quello che ho letto e studiato, che la maggior parte delle declinazioni della teoria degli stili di apprendimento sia priva di basi scientifiche e sperimentali solide e abbia ben poca utilità per gli studenti.
Ecco, l’ho detto.
Le declinazioni migliori di questa teoria, invece, quelle più legate all’aspetto cognitivo, sono più interessanti e vale la pena approfondirle quantomeno per conoscerci meglio e capire i nostri punti di forza e di debolezza e riuscire a superarli, ma presentano anch’esse diversi problemi e risultano più adatte come strumento conoscitivo, di comprensione e analisi, piuttosto che come strumento predittivo o per costruire strategie di studio efficace.
Questa è la mia posizione in breve. Ora si argomenta, però, che a sparare sentenze son capaci tutti!
Ho individuato quattro problemi principali con il mondo degli stili di apprendimento, vediamoli uno alla volta!
PRIMO PROBLEMA: LE PROPOSTE CONTRASTANTI
Il primo punto da sollevare, nonché uno dei più critici a dirla tutta, è proprio che la quantità di proposte e classificazioni diverse degli stili di apprendimento è enorme e contraddittoria, priva di alcuna coerenza interna.
Non ci provo neanche a dare una classificazione o tassonomia completa, è impossibile, anche perché ogni volta che cerco un po’ di fonti sul tema saltano fuori stili nuovi e proposte nuove.
Possiamo dividere le proposte e le “classi” di stili di apprendimento in quattro blocchi principali.
- Il primo blocco è quello che potremmo definire stili di apprendimento sensoriali. Per essere un pochino più precisi sono quelle classificazioni che si rifanno ai lavori di Walter Burke Barbe e di Neil Fleming e che vengono definiti modelli VAK e VARK. Hanno a che fare con le modalità con cui processiamo ciò che impariamo attraverso i nostri sensi. Li avrete sicuramente sentiti anche noi, perché sono i più famosi e diffusi (nonché i meno scientifici, ma questo lo vediamo dopo). La classificazione vuole che, a seconda del nostro stile sensoriale preferenziale, il nostro modo di processare informazioni, imparare ed esprimerci sia completamente diverso. Ci sarebbero persone visive, che si riconoscerebbero dalla parlata veloce, dal gesticolare e dal fatto di imparare più efficacemente attraverso l’uso di immagini; persone cinestesiche o cinestetiche, dalla parlata lenta e pastosa, movimenti lenti e bassi e predilezione per le sensazioni tattili; persone uditive o auditive, dal tono piatto o, al contrario, con sbalzi di tono della voce, che apprenderebbero principalmente attraverso l’ascolto e l’udito. Esisterebbero anche opzioni miste di questi stili preferenziali e alcune varianti aggiungono poi un quarto stile, denominato “sociale” che vedrebbe una predilezione nei soggetti per l’apprendimento di gruppo.
- Poi ci sono quelli che chiamerò stili di apprendimento esperienziali, che hanno a che fare con il modo in cui ci poniamo e reagiamo all’esperienza stessa dell’apprendimento, e che si riferiscono ai lavori di David Kolb e agli adattamenti successivi di Mumford e Honey. Queste classificazioni individuerebbero quattro tipologie di stili di apprendimento, individuati sulla base delle preferenze di modalità di esperienza, di sperimentazione, di concettualizzazione e di riflessione. E allora ecco che emergono ad esempio lo stile convergente (studenti che sfrutterebbero ragionamenti e deduzioni strettamente logiche e pratiche) opposto a quello divergente (che sfrutterebbe di più il pensiero laterale e l’immaginazione) lo stile assimilativo (che sfrutterebbe di più l’induzione) e quello attivo (che prediligerebbe invece il contatto pratico e diretto).
- Poi ci sono gli stili di apprendimento cognitivi che, come dicevo prima, sono quelli più solidi e hanno a che fare con l’atteggiamento che esibiscono gli studenti quando imparano. Si legano alla tematica degli stili cognitivi (che è connessa ma non è la stessa cosa, lo so, la psicologia è un casino), vengono spesso espressi in forma di coppie in opposizione e si rifanno agli studi di Grasha e Riechmann e poi al lavoro di analisi e classificazione di Robert Sternberg. Vediamo quindi lo stile competitivo opposto a quello collaborativo, che non serve che io spieghi, dipendente contro indipendente, evitante contro partecipativo, ma anche sistematico vs intuitivo (che ricalca un po’ il dualismo convergente-divergente di prima), globale contro analitico (il globale prediligerebbe la visione d’insieme e procederebbe dal generale al particolare, l’analitico al contrario, dal piccolo dettaglio al quadro complessivo), impulsivo contro riflessivo e altri ancora.
- Infine, l’ultimo macro-approccio è quello chiamato NASSP (che, lo ammetto, ho scoperto proprio oggi mentre ricercavo fonti per questo articolo) che cerca di mettere insieme i tre precedenti e fare una mega-classificazione totaletombale. Credo che emerga già molto, molto, molto chiaramente questo primo problema per quello che è: quali di queste classificazioni è più aderente alla realtà? Quale è più utile per gli studenti? Sono definitive o ne salteranno fuori altre? Sono scoperte o invenzioni degli psicologi che le propongono? Non lo sa nessuno. Non c’è una risposta definitiva a questa domanda, non si sa nemmeno se queste proposte siano sensate o se siano univoche o se si possano sovrapporre e fino a che punto. Di più, non si sa nemmeno se sia sensato parlare di stili di apprendimento in primo luogo, perché la definizione, la nozione stessa scricchiola. E questo ci porta al secondo grande problema…
SECONDO PROBLEMA: LE BASI SPERIMENTALI
Possiamo dimostrare in modo sperimentale che gli stili di apprendimento esistano e abbiano un impatto?
Mmmmh
L’ho già detto: senza alcun dubbio, l’approccio cognitivo è quello più solido a livello di ricerca e il più utile da applicare, ma anch’esso presenta forti limiti e solleva dubbi sulla sua utilità concreta.
Dalle neuroscienze arrivano critiche pesantissime al modo in cui tutte queste classificazioni sono state create, ai test pensati per individuarle e alla loro utilità nello studio e nell’insegnamento.
Questi stili di apprendimento risultano essere più dei costrutti teorici a posteriori, utili semmai ad analizzare tendenze e preferenze, ma quanto al fatto che siano davvero frutto di realtà cognitive sottostanti… beh, su questo di evidenze ce ne sono ben poche.
La critica più tagliente e più precisa che ho trovato è a mio avviso quella dello psicologo e neuroscienziato Daniel T. Willingham, che conclude (a mio avviso in modo impeccabile) che una teoria degli stili di apprendimento per aver senso e per poter essere riconosciuta come consistente e scientificamente solida, dovrebbe avere 3 caratteristiche:
- Dovrebbe essere coerente nell’assegnare alla stessa persona lo stesso stile di apprendimento. Potremmo dire che dovrebbe essere predittiva e costante. E invece gli stili di apprendimento per come sono presentati al momento cambiano nel tempo, cambiano a seconda della situazione, cambiano di test in test, e questo lo vedremo al prossimo punto;
- Dovrebbe dimostrare che persone con stili differenti pensano e imparano in modo differente. E anche di questo ci sono solo congetture e ricostruzioni a posteriori;
- Dovrebbe dimostrare che tutto questo non ha a che fare con l’intelligenza o la differenza di abilità. In altre parole, dovrebbe dimostrare che tutti gli stili possono far ottenere risultati in media pari agli altri stili. E invece ci sono evidenze sul fatto che in contesti diversi stili diversi portino a risultati più o meno positivi e che l’adozione di certi stili e strategie abbia a che fare anche con l’intelligenza e con altre caratteristiche comportamentali.
- Aggiungiamoci un quarto punto, una quarta critica, che stavolta riprendo da un lavoro notevole sul tema di Pashler, (vi lascio il link sotto) sul fatto che andrebbero condotti esperimenti con gruppi di controllo. Se io volessi provare la differenza tra stile visivo e cinestesico, per esempio, dovrei prendere un gruppo di supposti visivi e insegnare loro in modo cinestesico, paragonarlo ad altri gruppi e accertare risultati peggiori rispetto a studenti visivi che imparino in modo visivo o mille altre combinazioni. Studi condotti in questo modo e ripetibili, su un numero sufficiente di soggetti, per un tempo sufficiente e con tutti gli altri parametri fondamentali che non mi metto qui ad elencare, sembrano non essercene. Anche se poi ovviamente si scatena l’inferno e i sostenitori di una teoria o l’altra disputeranno questa affermazione. Ma mi fermo qui con la diatriba scientifica. Direte voi: però non tutto quello che si studia in psicologia può essere provato con la stessa certezza e lo stesso rigore delle scienze dure, e nemmeno tu ADC puoi citare esperimenti a doppio cieco per ogni aspetto del metodo di studio che insegni. Non stiamo facendo chimica o fisica, e il controllo delle variabili negli esperimenti è un inferno. Influssi esterni, interpretazioni parziali, generalizzazioni, approssimazioni sono all’ordine del giorno in questo campo. Se un costrutto teorico è utile agli studenti e applicabile nel concreto possiamo usarlo lo stesso anche se non abbiamo prove granitiche delle realtà cognitive sottostanti. Giusto, sono d’accordo. Se è utile e applicabile però. Passiamo al terzo problema!
TERZO PROBLEMA: L’APPLICAZIONE PRATICA
Questo personalmente trovo che sia il problema più importante: anche se esistessero come realtà cognitive gli stili di apprendimento e arrivassimo a definirli e classificarli perfettamente, o anche se al contrario volessimo ignorare i problemi visti finora e applicare gli stili di apprendimento così come sono, non sembra per nulla scontato che ci servirebbero a qualcosa.
Sappiamo per certo che gli studenti, e le persone in genere, se interrogate sul tema esprimeranno delle preferenze personali o delle tendenze nel loro modo di imparare e ragionare, ma i dati che abbiamo non suggeriscano minimamente che, oltre al fattore del gusto personale e dello stile, queste preferenze abbiano un reale impatto sul processo di apprendimento.
Sappiamo poi che le modalità di apprendimento variano e dipendono non solo e non tanto dalla persona, quanto dal contesto e dall’oggetto specifico dell’apprendimento.
Non importa se tu ti consideri un visivo: se devi studiare musica il canale preferenziale ed efficiente sarà quello dell’udito, che ti piaccia o meno. Se devi studiare un problema complesso e sequenziale, tu potrai pure trovarti meglio con uno stile globale/olistico, ma è lo stile analitico che ti porterà più avanti.
Non solo, c’è di più: sappiamo pure che superare le proprie preferenze e saper disporre di tutti gli stili e gli approcci, saperli integrare tra loro, saperli contaminare, saperli scegliere e applicare quando vogliamo, è la strategia migliore in assoluto. Meglio coinvolgere più sensi possibile, sempre e comunque, meglio rappresentare le informazioni da più punti di vista e in più modalità (vedi il concetto di dual coding, di cui abbiamo parlato spesso in riferimento alla schematizzazione). Meglio saper ragionare sia n modo induttivo, che deduttivo che abduttivo. Meglio saper uscire dalla nostra zona di comfort mentale e cambiare approccio.
Il proprio o i propri stili di apprendimento non devono mai trasformarsi in una scusa per non evolversi e migliorare.
E allora, al di là dell’interesse personale, del conoscersi meglio, la domanda provocatoria che pongo è: a cosa mi serve conoscere il mio stile preferenziale se tanto poi la strada migliore è quella di imparare a superarlo?
Mi rispondo anche da solo: al massimo questa consapevolezza ci può informare sulla strategia da adottare proprio per superare la preferenza e andare oltre, specie nell’insegnamento dei bambini.
Conoscere il nostro punto di partenza, i nostri punti deboli e punti di forza ci può aiutare a progettare il percorso per arrivare al punto d’arrivo, che è la versatilità di stile. E infatti secondo me è proprio questo lo spazio giusto per questi ragionamenti.
QUARTO PROBLEMA: LA COMMISTIONE CON LE PSEUDOSCIENZE
Quest’ultimo problema lo nomino soltanto, ne abbiamo parlato anche altre volte, vi lascio qui il link di un mio articolo di qualche tempo fa che vi consiglio di andare a recuperare.
Purtroppo queste teorie, specialmente quelle relative agli stili sensoriali, si sono poi diffuse, banalizzate, assolutizzate, trasformate in leggende metropolitane e poi date in pasto alla pseudoscienza più fuffosa, alla PNL e ai guru cialtroni.
E sono finite a infettare classi, istituzioni e enti di formazione di tutto il mondo, che invece di concentrarsi su metodi dall’efficacia ultraconsolidata perdono tempo a fare test per vedere se un tizio muove più o meno velocemente le mani mentre parla.
Il punto, alla fine è questo: la scienza in merito è piena di dubbi, incertezze e posizioni contrastanti, ma l’idea che ognuno di noi sia diverso e che abbia bisogno, quindi, di uno stile diverso, di un metodo di studio diverso, personalizzato e unico, è difficile da scardinare, perché parla al nostro desiderio di unicità, è coerente con le nostre sensazioni e le nostre credenze, è convincente.
E invece, come detto tante, tantissime volte, siamo molto più simili di quanto non siamo diversi, ed esistono per fortuna metodi di apprendimento incontrovertibili e universali che portano risultati concreti a tutti.
Certo, dobbiamo sforzarci di adattare e personalizzare il nostro approccio allo studio, ma prima di farlo dovremmo preoccuparci di saper studiare in modo efficace ed efficiente.
E poi, come abbiamo visto, qualunque sia il nostro stile, il regalo migliore che possiamo farci è quello di superarlo e aggiungere ad esso anche tutti gli altri stili, ampliando e rendendo più versatile la nostra cassetta degli attrezzi di studenti e imparando a usare lo strumento migliore nella situazione migliore. Anche questo fa parte della nostra maturazione.
A questo punto approfondite anche voi sulla bibliografia, lasciatemi un commento e fatemi sapere che cosa ne pensate!
Vi voglio bene se siete arrivati fin qui in un articolo più tecnico e denso del solito. Grazie!
FONTI E APPROFONDIMENTI
► Cornoldi, De Beni, Gruppo MT, Imparare a studiare;
► https://www.youtube.com/watch?v=rhgwIhB58PA&ab_channel=Veritasium
► https://www.youtube.com/watch?v=855Now8h5Rs&ab_channel=TEDxTalks
► https://www.youtube.com/watch?v=gzFQwFfXVMI&ab_channel=TEDxTalks
► https://journals.sagepub.com/doi/10.1177/0098628315589505
► https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1041608009000478
► https://journals.sagepub.com/doi/10.1111/j.1539-6053.2009.01038.x
► https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/00461528409529283
► https://eric.ed.gov/?id=EJ567456
► https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/0144341042000228834
► https://www.voced.edu.au/content/ngv:12401
► https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/feduc.2018.00105/full
► https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5366351/
► https://www.apa.org/pubs/journals/releases/edu-edu0000366.pdf
LINK UTILI
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